La lezione del floppy disk

Tutto quello che un’icona può insegnarci per fare pace con la nostra obsolescenza

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7 min readJun 19, 2021

A riprova della memoria corta di noi cibernauti, c’è una simpatica vignetta che gira per la rete, passando di mano in mano e di social in social, a intervalli di qualche anno. Mostra un adulto con in mano un vecchio floppy disk, e un bambino che lo guarda entusiasta e gli chiede: «Hai stampato in 3D l’icona di salvataggio?».

A colpo d’occhio sembrerebbe una battuta sul divario generazionale e sulla spaventosa rapidità del progresso tecnologico degli ultimi trent’anni. Però a ben guardare parla anche di un’altra cosa, e cioè della capacità di alcune immagini di sopravvivere all’oggetto che rappresentano.

Come si diventa un’icona

Ma prima di come si diventa un’icona, occorre capire bene che cos’è un’icona. In altre parole: che cos’hanno in comune Cristiano Ronaldo, la Vergine bizantina, l’emoji del dito medio e la F di Facebook?

L’icona (etimologia) è l’elemento minimo di un linguaggio non verbale, ma per l’appunto iconico. Di per sé, icona significa immagine, ma nel modo in cui lo intendiamo, l’icona è un segno, cioè un punto di relazione tra un significante (l’aspetto visivo) e un significato, e nella specificità dell’icona questi due aspetti si assomigliano. In alcuni casi, come la Vergine bizantina, il significato è tuttavia molto più complesso dell’immagine trasposta, addirittura archetipico (ossia, la Vergine contiene in sé riferimenti culturalmente condivisi alla purezza, alla maternità, alla beatitudine ecc., connotazioni che vanno ben al di là dell’immagine di una qualunque donna col bambino). Per questo carattere di astrazione semantica, l’icona può avvicinarsi a un’altro concetto: il simbolo. Nel caso del simbolo non è la somiglianza a legare significante e significato, ma una pura convenzione. L’emoji del dito medio, ad esempio, è un’icona perché raffigura un elemento della realtà; la bandiera italiana invece è un simbolo perché si sostituisce a una realtà a cui non assomiglia (una nazione, con tutto il significato che porta). Va da sé che le parole e i numeri sono anch’essi simboli codificati e il linguaggio verbale è la versione simbolica, cioè convenzionale, di altri linguaggi meno codificati (quello del corpo, quello musicale, linguaggi iconici…).

Torniamo allora alla domanda di partenza: come si diventa un simbolo? Una buona lezione ce la può offrire il vecchio floppy disk che, come dimostrano meme e vignette, ad oggi è — se non esclusivamente — prima di tutto la sua icona.

In corsa per salvarsi

Il floppy disk fu inventato nel 1967 da IBM. Era un dischetto magnetico di memoria, piccolo e facile da spostare. Il primo modello commercializzato aveva un diametro di circa 20 cm e poteva contenere fino a 80 kB di dati (per intenderci, sarebbero occorsi almeno nove dischetti per memorizzare l’immagine qui sopra). Ma nella seconda metà degli anni Ottanta si arrivò a produrre floppy sensibilmente più piccoli e con una capienza fino a 1.44 MB.
In seguito accadde quello che accade a molte tecnologie rivoluzionarie: il floppy disk morì. Nonostante la sua versatilità, il dischetto rimaneva un dispositivo estremamente delicato, e con gli anni fu sostituito dalle memorie ottiche (il cd) e digitali (la pennetta USB). Insomma, l’oggetto fisico, piccolo e facile da trasportare, scomparve gradualmente dalle nostre vite e venne
definitivamente accantonato degli anni Novanta.

Qualcosa però sopravvisse. La sua immagine, nel tempo, era diventata sinonimo di salvataggio dei dati su una memoria. A questo punto non aveva più importanza che la memoria fosse un disco, un chip o un cloud, i dati venivano salvati in quantità sempre maggiori, e il modo più intuitivo per farlo era attraverso un’icona che tutti avrebbero potuto riconoscere: quella dell’ormai defunto floppy disk.

Noi 128 & 64, n.3, agosto 1982

La de-incarnazione del floppy disk

Questa sovraestensione del significato iconico del floppy era stata resa possibile da tre fattori. Primo: l’enorme diffusione del dischetto magnetico come tecnologia di uso comune (per quanto un “uso comune” delle tecnologie negli anni Settanta e Ottanta non sia neanche paragonabile al rapporto quotidiano e costante che ognuno di noi intrattiene con i dispositivi digitali al giorno d’oggi). Secondo: una caratteristica intrinseca all’oggetto materiale, cioè quella che solitamente chiamiamo iconicità — la peculiarità estetica di questo oggetto, con lo sportello, l’etichetta ecc., che lo rende riconoscibile, una forma che si è conservata pressoché intatta lungo tutta la sua storia (a differenza di altri dispositivi come la chiavetta USB, che non hanno una forma peculiare). Terzo: l’uscita di scena dell’oggetto fisico.

Possiamo immaginare un tempo eventuale in cui il dischetto magnetico fosse sopravvissuto nell’uso quotidiano accanto a CD, chiavette, cloud ecc. In questo caso, probabilmente, l’icona del dischetto sarebbe ambigua, e forse la convenzione che la lega al gesto di salvare in memoria non si sarebbe così ben radicata. Quello che voglio dire è: perché il floppy disk diventasse un’icona è stata necessaria la sua morte. Solo attestandosi come superato, l’oggetto fisico del dischetto ha potuto liberare la propria immagine dall’inevitabile mortalità delle tecnologie.

Il modesto problema dell’obsolescenza della specie

È un argomento delicato, che tendiamo ad aggirare o negare o liquidare così, come se non fosse poi tanto importante. Il punto centrale è che ogni tecnologia prima o poi viene soppiantata. E oggi, che l’Intelligenza Artificiale è una realtà, e abbiamo di fronte un possibile futuro post-darwiniano e trasumanistico, tutti noi sappiamo, nel profondo, che le macchine sono destinate a superarci.

Porterò un solo, esempio contenuto in 6|5. La rivolta della macchine di Alexandre Laumonier (Nero, 2018). Laumonier sceglie di prendere in esame una delle attività più essenzialmente umane, ossia quella di dare un prezzo alle cose. Il mercato è al centro della sua analisi, e in particolare la svolta che negli ultimi anni ha premesso di passare da un mercato fatto di mediatori umani che gridano sul parquet della borsa, al cosiddetto trading ad alta frequenza, governato da algoritmi, concepito per loro, per le loro velocità, i loro ritmi di lavoro senza ferie e pause caffè. Ma più di tutto, un mercato ormai totalmente incomprensibile a noi umani.

Fin dall’inizio, una delle questioni centrali del trasumanismo è quella di accettare la propria obsolescenza. Una via certamente sarebbe incorporare la tecnologia all’interno dei sistemi biologici (dai cyborg di Neuromante, alle droghe sintetiche per aumentare la nostra “potenza di calcolo” — qualcosa come l’NZT del film Limitless di Alan Glynn). Ma un’altra via, più pacatamente onesta, è quella di accettare che stiamo creando una tecnologia che potrebbe in futuro non avere più bisogno di noi per svolgere anche le attività più umane — il caso di 6|5 è emblematico.

Coronando il passaggio dalla genetica alla memetica (Dawkins), quello che stiamo guardando è uno scorcio su un’evoluzione molto diversa da come ce la eravamo immaginati, un’evoluzione in cui a un certo punto l’essere umano per come lo abbiamo conosciuto finora potrebbe far parte del passato.

È proprio in questo momento che ci viene incontro il floppy disk. A volte una tecnologia ha bisogno di morire perché la sua immagine sopravviva. E non sto parlando di estinzione della specie, ma di mettere la nostra umanità nelle mani di una tecnologia più efficiente, una tecnologia che però non possiamo comprendere. Sto parlando dell’ipotesi che la figura umana sia più di un corpo, così come la Vergine bizantina è più di una donna col bambino, ma che sia simbolo del nostro logos, della nostra società, delle nostre contraddizioni, e di tutto quello che ci ha reso umani, anche quando non ci sarà più bisogno di noi perché esista (qualunque cosa sia) l’umanità.

Noi, robot

La stragrande maggioranza dei film e delle serie tv, dei libri, dei videogiochi, degli spot ecc., ci restituiscono un’immagine di macchine rivestite di un copro a noi familiare. D’altronde, se l’obiettivo è rassicurarci e coinvolgerci, è certamente più facile empatizzare con Sonny di Io, robot, che con un Hal di 2001, Odissea nello spazio. Emblematici sono la minuziosa descrizione “sica dell’IA fatta da Ian McEwan in Macchine come me, e i bellissimi e umanissimi visi dei due automi nel videoclip di All is full of love di Bjork.

Ma non c’è solo questo. La forma del corpo umano ha anche un valore iconico nel descrivere la nostra specie, e in termini più astratti ha un valore simbolico nel rivendicare i prodotti della cultura umana. Nei primi anni Settanta due iscrizioni, le cosiddette Placche dei Pioneer, furono mandate nello spazio a bordo di due sonde. Sulla superficie recavano, a beneficio di una possibile forme di vita extraterrestre, delle immagini semplici ed estremamente significative. Oltre ad alcune informazioni sulla struttura dell’atomo e del Sistema Solare, c’è anche una rappresentazione dei copri del maschio e della femmina umani. Lo stesso accade nel Messaggio di Arecibo trasmesso per onde radio nel 1974. Ma perché era così importante mostrare a generici coinquilini universali la forma dei nostri corpi?

Forse già adesso (già nel 1972) i nostri copri non sono più solo i nostri corpi, ma la nostra immagine si è estesa a icona della specie, a simbolo delle sue conquiste e dei prodotti dello sviluppo tecnologico. Forse davvero, in un futuro transumanista neanche troppo lontano, le macchine sceglieranno di assomigliare più a Sonny che ad Hal. E lo faranno per motivi che noi non capiremo, a meno di pensare al floppy disk.

Per saperne di più

Pubblicato il 6 ottobre 2020 su typoes.it

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